“Tra sentenze comunitarie e nazionali, nozione autentica di rifiuto allo sbando”
Luciano Butti,
Ambiente & Sicurezza, Il Sole 24 Ore, 2004, n. 16, (inserto) p. XVII
Ancora lontana da una reale soluzione la vexata quaestio sulla nozione autentica di rifiuto. Dopo il D.L. n. 138/2002, infatti, si sono susseguite diverse pronunce giurisprudenziali, spesso contrastanti tra loro, che hanno acceso un vivace dibattito, con conseguenze disorientamento degli operatori del settore. Le ultime in ordine di tempo sono quattro sentenze della terza sezione della Cassazione penale, in particolare, le prime tre introducono, rispettivamente: una sorta di “ribellione giurisprudenziale” contro l’interpretazione autentica disposta con il D.L. n. 138/2002 (sentenza 17 gennaio 2003, n.2125); il carattere pienamente “vincolante per il giudice italiano” dell’attuale nozione autentica (sentenza 29 gennaio 2003, n.4052); l’ipotesi per la quale quando non vi sia necessità di trattamento del materiale di scarto, ma possibilità di riutilizzo immediato nel ciclo produttivo, non si possa parlare di rifiuto, ma di materia prima secondaria, di per sé riutilizzabile (sentenza 24 febbraio 2003, n.8755). Nessuna delle tre decisioni, tuttavia, sembra essere del tutto convincente, mentre maggiori delucidazioni sembrano provenire da una quarta recentissima pronuncia (sentenza 15 aprile 2003, n.17656) che, nel riconoscere la necessità di applicare il diritto interno (ivi compresa la “interpretazione autentica” della definizione di rifiuto) nel quadro dei principi comunitari, valorizza la più recente ed equilibrata giurisprudenza della Corte europea di Giustizia, secondo la quale – pur nell’ambito della necessaria interpretazione rigorosa della definizione di rifiuto – può escludersi la ricorrenza di un rifiuto se il riutilizzo di un sottoprodotto è “certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione”.